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Due azioni fondamentali e potenti (che abbiamo dimenticato): la ricerca di un perché

Molte realtà aziendali e molte persone che lavorano nelle aziende, spesso dimenticano due azioni fondamentali per cambiare i risultati delle proprie azioni.
Siamo infatti concentrati principalmente sui numeri e così, nell’incertezza delle dinamiche di mercato, siamo preoccupati dai numeri: costi, ricavi, variabili, profitti, investimenti, stipendi, scadenze, previsioni.

Ma oltre a questo, rimane spazio per qualcos’altro?

Anche se diverse scuole di pensiero ci insegnano a guardare ‘nel proprio giardino’ e a non lasciarsi distrarre da quello che fanno i concorrenti, a volte un occhio in casa degli altri lo buttiamo.
Accorgerci che i nostri competitor stanno ottenendo risultati migliori, ci porta subito a cercare di comprenderne i motivi. Se questi non riusciamo razionalmente a trovarli, che fare? Non possiamo conoscere esattamente l’elemento (o l’insieme degli elementi) differenziante. Potrebbe anche essere che stiamo osservando le prestazioni dei competitor da un punto di vista limitante, cioè che la nostra analisi sia limitata a considerare solo gli aspetti tangibili e misurabili.

Perché certe aziende sono più innovative ed efficienti di altre, pur avendo accesso agli stessi talenti, alle stesse agenzie, agli stessi consulenti e agli stessi media?

 

Il cerchio d’oro

Circa una dozzina di anni fa, l’antropologo e speaker internazionale Simon Sinek ha scoperto che c’è un modello che accomuna tutti i grandi leader ispiratori e tutte organizzazioni nel mondo. Questo modello è sconosciuto dalla maggior parte delle aziende che non hanno successo.

Sinek lo chiama il cerchio d’oro.

Si tratta di un processo mentale e pratico, che si basa sull’identificazione autentica del proprio perché. Le realtà che seguono questo processo riflettono in modo profondo sul proprio perché, imparando a individuarlo e soprattutto a ri-conoscerlo. Solo successivamente si dedicano al cosa e al come.
Sembra un’azione semplice, ma non lo è affatto. Il perché di una realtà aziendale non è il risultato. È la propria missione.

La propria missione è quella che un numero enorme di organizzazioni pensa di conoscere, sulla base di quello che fa, cioè sulla base di quello che offre concretamente sul mercato. Molto spesso invece non è così.

Farsi domande coraggiose

Un esperimento molto interessante, a questo punto, potrebbe essere quello di fare delle domande alle persone che lavorano in queste organizzazioni.

Domande come:

“Qual è il motivo per cui la vostra organizzazione esiste?”

“Perché la vostra organizzazione esiste ancora dopo tutti questi anni?” (se esiste da tempo)

“Perché vi alzate la mattina per lavorare lì e non da un’alta parte?”

“Perché dovrebbe importare a qualcuno quello che fate in quest’azienda?”

Altrettanto interessante sarebbe fare le stesse domande a chi ha la responsabilità di gestire quell’azienda. Aggiungendo in fondo il quesito fondamentale, cioè “Quali sono i valori reali che tu e quest’azienda avete in comune?”

Quindi, in ordine di importanza vitale, vanno profondamente compresi e riconosciuti:

Il proprio perché.

Il proprio come.

Il proprio cosa.

Chi non mette in atto questo meccanismo identitario, segue la direzione comune: quella che va dall’esterno verso l’interno, cioè dalle cose più chiare a quelle più sfuocate.

I leader ispiratori e le organizzazioni ispiratrici, qualunque sia la loro dimensione o il loro settore, pensano, agiscono e comunicano in senso opposto: dall’interno verso l’esterno.

Il marketing, forse, ci ringrazierà

Questo si riflette molto spesso anche nelle strategie di marketing. Poniamo il caso di lavorare in un’azienda che produce stufe. È facile e piuttosto banale dire “Facciamo delle stufe fantastiche. Sono ben progettate, semplici da usare e altamente efficienti. Ne volete comprare una?”.

Anche se detto così può far sorridere, questo slogan ricalca lo schema seguito dalla maggior parte delle realtà commerciali, dato che gran parte del marketing e delle vendite sono architettate così.
A livello sociale anche noi – come individui – ci comportiamo in tal modo: raccontiamo le parti più belle di ciò che facciamo, quanto siamo diversi o migliori degli altri. Da lì ci aspettiamo un qualche comportamento, che sia un acquisto, un voto o qualcosa del genere.

Il problema gigantesco però rimane uno: noi non ispiriamo.

Le aziende che si differenziano dalla media, invece, solitamente conoscono il loro perché. Se lo ricordano in tutto ciò che fanno, anche quando si pongono come obiettivo quello di:

  • avviare processi con un tasso sensibile d’innovazione.
  • accogliere la diversità di opinioni.
  • mettere in discussione lo status quo.
  • mettere in discussine il proprio metodo di lavoro.

Da un punto di vista commerciale – continua Sinek – è estremamente utile ricordare che la gente non compra quello che facciamo. Le persone comprano il motivo per cui realizziamo quel prodotti o quel servizio. La gente compra il nostro perché, anche se spesso non se ne rende conto.

 

Come se usassimo il cervello

C’è poi un dettaglio curioso: lo schema del cerchio d’oro ricorda morfologicamente il nostro cervello. Se guardiamo dall’alto una sezione di un cervello umano, notiamo che è diviso in tre componenti principali che collimano perfettamente con il cerchio d’oro.

La parte più recente del nostro cervello (cioè la neo-corteccia di Homo Sapiens) corrisponde al livello cosa. È responsabile di tutti i nostri pensieri razionali e analitici, oltre che del nostro linguaggio. Le due sezioni intermedie fanno il nostro sistema limbico. E il nostro sistema limbico è responsabile dei sentimenti (come la fiducia e la lealtà). È anche responsabile del comportamento umano, del processo decisionale e non ha capacità di linguaggio.

In altre parole, quando comunichiamo dall’esterno verso l’interno, la gente può capire una serie di informazioni complicate come caratteristiche, benefici, fatti e numeri. Ma quando riusciamo a comunicare dall’interno verso l’esterno, parliamo direttamente alla parte del cervello che controlla il comportamento. E quindi permettiamo alle persone di razionalizzarlo con le cose tangibili che diciamo e facciamo.

Ed è proprio da qui provengono le decisioni di istinto.

Dunque, il problema urgente e capitale è questo: se non sappiamo perché facciamo quel che facciamo (ed è esattamente al nostro perché che la gente reagisce), come possiamo portare la gente a seguirci o a comprare qualcosa da noi o a essere percepiti come onesti?

Il nostro obiettivo non è vendere a gente che ha bisogno di ciò che abbiamo, ma vendere a gente che crede in quello che facciamo. Non è assumere persone che hanno bisogno di un lavoro, ma è assumere gente che crede in quello in cui crediamo noi.

La seconda parte di questo articolo la potete trovare qui:

Due azioni fondamentali e potenti (che abbiamo dimenticato): entrare nel flusso

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